giovedì 23 dicembre 2010

LA GIRAFFA, IL GUFO E L'ALBERO DI NATALE


















La giraffa non aveva mai visto un albero con le palle colorate e le lucine. Veniva da un paese molto lontano in cui la gente non usava festeggiare il natale come da noi. Si chiese se quei pomi così luccicanti fossero buoni da mangiare.
- Ferma! - gridò un gufo che passava di lì. - Sei impazzita? Non puoi mangiare le palle dell'albero...
La giraffa si girò verso il pennuto, con il collo lungo lungo e un sorriso un po' scemo sul muso.
- Dici sul serio? Eppure sembrano davvero deliziose...
- Sono fatte di vetro, non lo vedi?
- Ma io credevo che fossero i frutti dell'albero. Dove sono nata non ce ne sono di così buffi...
- È un albero di natale, cioè un abete vestito per il natale. Qui si usa fare così – spiegò il gufo, che si credeva saggio e colto più di ogni altro animale.
- E per quale motivo? - chiese allora la giraffa, alla quale era passata l'acquolina in bocca.
- Beh, veramente... - balbettò il gufo che non sapeva come rispondere.
- Ah, ho capito, non lo sai...
- Non è vero, io so tutto! - replicò il gufo offeso.
- Allora perché? - insistette la giraffa.
- Ovvio, per avvertire noi uccelli notturni. D'inverno è così buio che non si vede bene, allora gli uomini mettono delle segnalazioni sugli alberi. Sono davvero comode...
- Ma che cosa c'entra col natale? - domandò la giraffa, che non credeva al gufo.
- Beh, perché... - di nuovo il gufo non sapeva come rispondere.
- Non lo sai? - chiese lei sorridendo maliziosa.
- Ma certo che lo so... - si affrettò a ribattere il gufo. - È un questione religiosa. Gli uomini devono proteggere noi uccelli perché siamo degli animali molto importanti, o come dicono loro, siamo “animali sacri”.
La giraffa guardò il gufo impettito e non riuscì a trattenere una risata.
- Cosa ti ridi? - chiese allora il pennuto.
- Oh nulla, è solo che mi sembra una ragione un poco sciocca...
- Beh, non hai tutti i torti. Ma ormai nessuno si stupisce più delle stranezze degli uomini.

L'albero di natale è una tradizione pagana incorporata nel cristianesimo e significa rinascita.

Buon Natale!

martedì 21 dicembre 2010

FIMPSY E FEMPSY E IL MISTERO DELLA PALLA CADUTA DAL CIELO

Fimpsy e Fempsy si conoscevano da quando erano nati, e da allora non si erano mai separati. Fimpsy e Fempsy potevano contare l'uno sull'altra. Stavano sempre insieme, ma a volte si chiedevano se fosse sbagliato. Forse avrebbero dovuto conoscere qualcun altro, frequentare nuovi amici, viaggiare, vedere cose nuove... Il dubbio sovveniva ad entrambi prima di dormire, nel buio della loro cameretta, che ovviamente condividevano come ogni altra cosa. Ma al risveglio, appena si guardavano in faccia, quel dubbio era sparito insieme alle ombre della notte. Fimpsy e Fempsy stavano troppo bene insieme. Se la spassavano alla grande, sia col sole che con la pioggia, d'inverno come d'estate. Un giorno Fempsy disse al suo amico: - Noi rimarremo sempre vicini, vero?
Fimpsy non ebbe bisogno di pensarci più di un secondo, e rispose: - Certo Fempsy, staremo sempre insieme!
Un giorno i due andarono a giocare sul loro prato preferito, malgrado il cielo fosse coperto da delle grasse nuvole grigiastre. Loro non si scoraggiarono e si spinsero oltre il piccolo rigagnolo in fondo al campo che si vedeva dalla finestra della loro stanza, per poi risalire il vigneto dei vicini fino a uno spiazzo di erba fresca sul quale dominava una grande quercia. Le gocce incominciarono a cadere, ma loro si misero al riparo sotto la chioma del grande albero. Rimasero a guardare la pioggia che cadeva e i lampi che illuminavano il cielo, seguiti sempre dal brontolio del tuono. Si strinsero vicini, la paura per il temporale passò, e sui loro volti apparve un sorriso. Quando la pioggia cessò, Fimpsy e Fempsy uscirono da sotto la quercia e si diressero in fondo al pratone. Laggiù trovarono una palla che quando erano arrivati non c'era.
- Da dove spunta questa? - domandò Fimpsy.
- Forse è caduta dal cielo - suggerì Fempsy.
- Ma dai, non è possibile!
- Ma certo che è possibile. Dal cielo cade sempre un mucchio di roba: acqua, ghiaccio, sabbia, comete, meteore, uccelli morti, pesci, ranocchie...
- Uccelli morti?
- Sicuro! Hai mai visto un uccello morto volare?
- Si, ma gli uccelli mica muoiono mentre volano...
- A no? Secondo te il perfido signor Rosco, quando va a caccia, aspetta che si posino a terra prima di prendere la mira?
- Vabbè, e allora i pesci e le ranocchie?
- L'ho letto su un giornalino. Diceva che dopo che è passato un uragano può piovere di tutto...
- Si, ma questo non è stato un uragano, solo un piccolo temporale estivo...
Mentre discutevano, qualcuno si avvicinò a raccogliere la palla.
- Ciao! - disse.
- Ciao! - risposero insieme Fempsy e Fimpsy. - Allora la palla è tua...
- Si, stavo giocando nel mio giardino quando è scoppiato il temporale. Ho lanciato la palla troppo in alto ed il vento l'ha portata via. Menomale che non è andata perduta.
- Oh, abbiamo risolto il mistero della palla caduta dal cielo – affermò sollevato Fimpsy.
- Cosa? - domandò incuriosito il nuovo venuto.
- Oh, lascia perdere, come non detto.... - rispose Fimpsy, imbarazzato. Poi tutti e tre scoppiarono a ridere.
- A proposito, io mi chiamo Kanù.
- Io sono Fimpsy e lei e la mia amica Fempsy.
- Piacere! Perché non giochiamo insieme a palla?
Così i tre giocarono a palla tutto il pomeriggio e prima di separarsi decisero insieme di ritrovarsi anche il giorno dopo.
Quella notte Fimpsy e Fempsy, prima di addormentarsi, pensarono a Kanù e a quanto era meraviglioso avere un nuovo amico. Entrambi però si sentivano un po' in colpa, perché temevano che la loro amicizia ne avrebbe risentito, anche se qualcosa nei loro cuoricini diceva loro che sarebbe stato bellissimo condividere i propri amici con altri amici. In questo modo tutti potevano prendersi cura di tutti... Ah, avrebbero trovato nuovi amici con cui giocare, e nuove palle cadute dal cielo, o forse qualcos'altro, un aquilone, un freesbie, oppure un boomerang... e ci sarebbero state tante altre splendide avventure, insieme a Fempsy, Fimpsy, Kanù... e mentre pensavano a tutte queste cose, insieme i due amici sprofondarono nel più soffice dei sonni.

giovedì 16 dicembre 2010

IL CUOCO MARCELLO E LA SINFONIA DELL'ARCOBALENO


















Marcello faceva il cuoco nelle cucine del palazzo reale, e cucinava piatti prelibatissimi per il re Anselmo e la regina Filomena. Sapeva fare gli gnocchi ai mille formaggi e la crostata di cioccolatatissima, che non era una normale crema di cacao, perché lui aveva una ricetta segreta e riusciva a preparare la cioccolata più buona di tutto il paese. Marcello era un cuoco in gamba, ma cucinare non era la sua sola passione. A lui piaceva tanto la musica, e a volte gli dispiaceva non aver mai imparato a suonare uno strumento. Nella sua cucina lo potevi trovare a rimestare nei pentoloni canticchiando un motivetto, anche se non era molto intonato.
Per la festa del cinquantesimo anniversario di matrimonio del re e della regina, preparò una cena prelibata per tutti i millesettecentoventidue ospiti presenti: crostini buoni-buoni con un pizzico di bontà, ravioli ripieni di meraviglia con salsa di noci e formaggissimo, pizza supergolosa con mozzarella ultrafilante e dolce al caramello bello-bello con una valanga di panna. Gli ospiti rimasero esterrefatti e parlarono di quella cena per i secoli a venire. Il re e la regina rimasero così entusiasti che regalarono a Marcello una pentola ricolma di monete d'oro. Gli dissero che non esisteva abbastanza oro per ripagarlo della loro gratitudine, anche perché l'oro vale meno di quello che si pensa, però gli augurarono che con il loro dono avrebbe esaudito i suoi desideri.
Così Marcello lasciò il palazzo reale e si comprò una bella casa in campagna, con un piccolo orto e un pozzo per attingere acqua pulita. Era un posto magnifico, tra le montagne e il mare, e vicino si trovava un'antica foresta abitata dagli gnomi. Gli gnomi erano gente a posto, anche se un poco stramba. Amavano inventarsi sempre qualcosa di nuovo, e a volte dalla finestra Marcello vedeva un lampo o sentiva uno scoppio provenire dal bosco, e sapeva che una delle loro invenzioni era andata male. Ogni primo del mese lui li invitava nella sua casa per una cena a base di prelibatezze, e ogni volta gli regalavano una delle loro bizzarre invenzioni. Della maggior parte di queste non sapeva cosa farsene, ma per non mancare di rispetto ai suoi ospiti, faceva finta di esserne entusiasta, per poi andarle a nascondere in cantina.
Ma un giorno Forg, lo gnomo più anziano della comunità, gli porse due strani oggetti a forma d'imbuto. - Sono sicuro che questa nostra invenzione vi piacerà un sacco. Si tratta di due registratori di suoni molto particolari. Sono in grado di percepire le sinfonie nascoste, quelle presenti in natura ma che l'orecchio non riesce a carpire, come il concerto dei cipressi, la ballata della luna, l'aria del crepuscolo, il madrigale delle nuvole, la tarantella della pioggerella, l'operetta del rigagnolo, il notturno delle stelle e la meravigliosa sinfonia dell'arcobaleno...
- La sinfonia dell'arcobaleno? - domandò incredulo Marcello.
- Ah, quella è la mia preferita! - ribatté il mastro gnomo.
Incuriosito da quella strana invenzione, ma anche un pochino scettico, Marcello uscì di casa una mattina che ancora il sole non si era alzato. Si arrampicò sulla collina vicina, e volgendo lo sguardo a oriente, attese impaziente l'alba. Con sé aveva i due imbuti, che puntò nella direzione in cui presto si sarebbe affacciato il sole. Attese, stringendosi addosso il cappotto perché faceva un po' freddo, fino a quando un primo raggio lo colpì in pieno viso; un vero spettacolo. Speriamo che questi aggeggi abbiano registrato tutto, pensò mentre ritornava indietro. E appena entrò in casa, sentendosi ispirato, andò in cucina a preparare una torta di mele dorate con stelle di zucchero argentato. In sottofondo mise la musica che i due imbuti avevano colto dal sole nascente; la canzone dell'alba. Che melodia meravigliosa, tutta per archi e cornamuse. Marcello rimase esterrefatto, e si augurò che presto venisse un bel temporale, e che il sole irrompesse sorridente regalandogli così l'arcobaleno più bello che mai si fosse visto.
Marcello il cuoco visse per tanti anni nella sua casa vicino alla foresta degli gnomi, e puntualmente all'inizio di ogni nuovo mese dava una festa insieme ai suoi piccoli amici. Registrò le canzoni più meravigliose che la natura compose durante gli anni della sua lunga vita, e a volte le suonava durante queste feste, e tutti gli gnomi ne godevano, e gli animali del bosco si avvicinavano per sentirle. Visse felice il cuoco Marcello, fino al suo novantatreesimo compleanno.
Quel giorno un uomo bussò alla sua porta. Era vestito di ombra e di vento, con due occhi rossi che bruciavano sotto il lungo cappuccio. Disse di chiamarsi Orog e di essere un viaggiatore di mondi. Marcello non sapeva cosa volesse dire, ma lo fece accomodare e gli offrii del tè con dei biscotti al miele appena sfornati. Orog spiegò che durante l'ultimo viaggio si era imbattuto in un mondo in declino, pieno di uomini infelici. Laggiù tutti correvano dietro a qualcosa, distruggendo tutto ciò che li si metteva davanti. Nessuno sembrava accorgersi che la ragione della loro infelicità era proprio tutto quel correre. Orog sperava che se avessero udito la sinfonia dell'arcobaleno, si sarebbero finalmente fermati. Questa era la ragione della sua visita; voleva gli imbuti magici degli gnomi, quelli che registravano tutte le melodie della natura, e con l'aiuto di questi forse avrebbe salvato quel mondo.
Marcello, piegato sulla sedia a dondolo, guardava pensieroso l'ombra ammantata di vento. - Prendi pure ciò che chiedi, mio ospite... ma prima rispondi a questa domanda; credi che questi uomini possano davvero accorgesi della bellezza, dopo aver passato tutta la vita ad ignorarla?
Orog guardò il vecchio. - Non lo so... ma questa è la loro ultima speranza.
Poi afferrò i due imbutì e sparì nella notte più buia.

lunedì 13 dicembre 2010

PIERLUIGI IL BACO





















Questa è la storia di un baco di nome Pierluigi, con tutti i problemi annessi dell'essere baco. Un baco in effetti è poco roba, ma a volte conta più la volontà che la stazza. Pierluigi, che molti chiamavano affettuosamente Pierlù, scorrazzava in su e in giù per il suo mondo, che non era un mondo grande e complesso come il nostro, ma che comunque pareva sconfinato per un esserino minuto come lui. Il baco Pierlù girava, e spesso si domandava perché era nato baco, domanda non da poco, tutto sommato... “Vorrei fare tante cose, ma sono solo un baco...”, diceva tra sé. La cosa non lo faceva stare male, però non riusciva a venirne a capo.
Un giorno arrivò davanti al castello di uno stregone, tra tutti il più famoso e temuto, perché è normale temere uno stregone. Gli stregoni conoscono tante cose, e chi sa troppo nasconde sempre qualche segreto, o almeno questo è quello che pensano i più. Ma Sulfio, il mago in questione, non era malvagio, era solamente un po' strano. Pierlù lo trovò che si sporgeva da una finestra, con la veste penzolante e il cappello tutto storto. “Vuoi vedere che adesso cade di sotto!” pensò il baco, e subito accorse in suo aiuto.
- Signor stregone, ma cosa sta facendo? Così rischia di sfracellarsi al suolo! - disse il baco, con una vocina piccina da baco. Sulfio, che era intento a fissare uno strano marchingegno tubolare che fuoriusciva da un buco sul tetto, guardò giù alla ricerca di colui che aveva parlato, e per poco non perse l'equilibrio.
- A chi appartiene questa vocina da baco? - domandò lo stregone.
- Ecco, lo sapevo che mi avrebbe riconosciuto anche dalla voce. Sono Pierluigi il baco, ma lei può chiamarmi Pierlù – rispose il baco, osservando meglio il marchingegno che dal tetto del castello spariva oltre le nuvole più sopra. - Che cosa sta montando? - chiese poi.
- È un nuovo dispositivo di mia invenzione. Serve a raccogliere la polvere di stelle... - spiegò il mago Sulfio, mentre finiva di avvitare un bullone che fissava saldamente al muro quello strano tubo.
- Polvere di stelle? - replicò il baco, che non ci capiva granché di astronomia.
- Proprio così. Dai, vieni dentro Pierlù che ti faccio vedere... - e detto ciò, lo stregone sparì oltre la finestra e in un batter d'occhio aprì la porta del castello. Pierluigi il baco rimase perplesso. - Come ha fatto ad aprire la porta così velocemente? - chiese, con la bocchina da baco ancora aperta.
- Beh, sono uno stregone dopotutto... - E quella frase spiegava molte cose.
Sulfio invitò il suo ospite nel laboratorio dove preparava le pozioni. Pierlù, essendo un baco, si muoveva piano strascicando le sue membra, ed ad ogni strascico qualcosa di quel mirabolante castello lo lasciava senza fiato. Mai aveva visto tante stranezze e meraviglie in una volta sola. Ma la cosa più stupefacente doveva ancora vederla.
- Eccola qua, la polvere di stelle! – annunciò lo stregone, indicando un mucchietto di sabbia finissima, così bianca e luccicante da abbagliarti. - All'altra estremità del tubo che ho costruito c'è un imbuto che la raccoglie. Certo, prima bisogna setacciarla... - spiegò, immergendo una mano nella sabbia e lasciandosela scivolare tra le sue dita nodose.
- Setacciarla? - domandò il baco, e si chiese se fosse una domanda stupida, ovvero una domanda da baco...
- Certamente. La polvere di stelle non è mai pura. Detto tra me e te, ci sono un sacco di schifezze nell'universo...
- Ma a che serve? - chiese allora il baco.
- Caro amico, devi sapere che la polvere di stelle è la sostanza più preziosa che esista al mondo. Un pizzico di questa polverina ti rimette sulla giusta strada, e a volte riesce anche ad esaudire i desideri.
- Dice davvero?
- Beh, stando ai miei calcoli...
- Vuol dire che non l'ha mai provata?
- No... Vedi, io sono uno che si accontenta di poco...
- Allora forse potrei...
- Provarla? Ma certo. Tira fuori la lingua... ne basta una puntina...
E allora lo stregone prese un cucchiaino e versò un pochino di polvere di stelle sulla lingua del baco Pierluigi, che immediatamente strizzò gli occhi perché non aveva mai assaggiato niente di più dolce. Il corpicino da baco fece uno scossone. Si sentì strano, gli girò il capo e per un momento pensò di essere stato avvelenato. Poi successe qualcosa di davvero bizzarro. Il suo corpicino da baco incominciò a crescere e a cambiare. Sentì dentro le sue carni molli da baco, formarsi delle ossa lunghe e robuste. A trasformazione ultimata, si guardò a uno specchio che occupava l'intera parete del laboratorio. Il baco Pierlù non riusciva a credere ai suoi occhi: era diventato un bambino.
- Ecco qua, ragazzo – disse lo stregone, porgendogli un sacchetto pieno di polvere bianca. - Adesso che sei un bambino, puoi andare nel mondo degli uomini a spolverare le loro zucche con un po' di questa, sperando che possa fare loro riflettere sui tanti sbagli che continuano a fare.
Poi lo specchio divenne una porta tra i due mondi e Pierluigi non-più-baco vi saltò dentro. Adesso sapeva il motivo per cui era nato baco.

martedì 7 dicembre 2010

IL GUFO RAIMONDO E LA PULCE CARLOTTA




















C'era un gufo che si chiamava Raimondo ed in tutta la foresta era rinomato per la sua pigrizia. Rimaneva appollaiato al suo albero giorno e notte, anzi no, soltanto di notte, dato che di giorno se ne tornava nella sua tana a dormire. Ma non doveva neanche spiccare il volo per rientrare, poiché abitava nella cavità di quello stesso albero. Insomma, Raimondo si alzava tardi, mangiava due o tre insetti che passavano di lì, poi metteva la testa fuori e prendeva posizione sul ramo. Per ore se ne stava così immobile che l'albero pareva muoversi più di lui, aiutato dal vento ovviamente. No, Raimondo stava fermo come una statua, come un sasso, anzi no, come una montagna, come la grande montagna che vegliava su tutti gli animali della foresta.
Un giorno, poco prima dell'alba, una pulce molto atletica, che aveva fatto anche la maratona di New York e quella di Honolulu, passò per caso vicino all'albero di Raimondo. Appoggiandosi al tronco, iniziò a fare gli esercizi di riscaldamento, tanto per sgranchirsi le zampe. Alzò la testa e vide il gufo che sonnecchiava, o forse faceva solo finta di sonnecchiare, per questo non si fece problemi a disturbarlo.
- Buonasera gufo, tutto bene? - chiese, così per fare un po' di conversazione. Raimondo alzò mezza palpebra ma non vide nessuno. Incurante di tutto, la riabbassò, lasciando però una fessurina socchiusa, perché non si poteva mai sapere...
- Signor gufo, forse fa meglio a tornare nella sua tana. Dormire appollaiati è pericoloso, a volte una folata di vento ti può far perdere l'equilibrio. - E mentre diceva questo, la pulce incominciò sciogliere i muscoli scuotendo simpaticamente il corpicino.
Raimondo aprì entrambi gli occhi e li ruotò verso il basso per capire da dove proveniva quella voce. Sotto l'albero vide quella pulce, tutta atletica e con il pettorale numero 43.
- Oibò, una pulce – sussurrò, e poi richiuse gli occhi.
- Beh, non una pulce qualsiasi – ci tenne a precisare l'insetto. - Io sono la Carlotta, la pulce più veloce della foresta. Lo sa che io l'anno scorso sono arrivata terza alla maratona di Honolulu, e solo perché durante la gara, proprio sulla dirittura finale, mi si è messo di mezzo un grillo che era mio fan. “Vai-Vai!” mi urlava, ed io per scansarlo ho dovuto rallentare... povero grillo, si sentiva così in colpa dopo. Raimondo prestò poca attenzione a quelle parole, ma pensò bene di tornare in casa, dato che era quasi l'ora di andare a dormire.
- Mi spiace pulce, ma adesso la devo lasciare. Si è fatto proprio tardi – disse.
- Oh, non si preoccupi signor gufo, anche io devo scappare. Oggi ho in mente di scalare la grande montagna. Eh già!...
- La grande montagna? - ripeté Raimondo, credendola folle. - E perché mai?
La pulce ci pensò un attimo, quasi fosse stata presa di sorpresa. Poi alzò le spalle e rispose: - Mah, così tanto per fare...
Allora la pulce si mise in posizione, tutta concentrata e con i muscoli tesi, poi si dette anche il conto alla rovescia. Raimondo la guardava ancora un po' confuso, mentre un grosso sbadiglio gli fece strizzare i suoi due grandi occhi.
- Addio signor Gufo! - salutò la pulce, partendo di volata verso la montagna.
- Addio pulce – rispose Raimondo, e già non la vedeva più. Poi se ne andò a dormire.
Quella notte sognò che la pulce era arrivata fino in cima alla montagna, e poi si era spinta oltre, fino alle nuvole, alla luna e alle stelle. Si era fatta il giro di tutto l'universo e poi, non contenta, si era messa a ballare il tip tap su un buco nero. Infine se n'era tornata giù sulla terra, atterrando proprio sotto il suo albero. Carlotta gli aveva detto “non è poi così male lassù!”, indicando il cielo stellato. E lui le aveva risposto “neanche quaggiù è poi così male...”
Insieme avevano sorriso, lui che non si muoveva mai dal suo ramo e lei che non stava mai ferma. Perché per quanto si possa esser diversi, esiste sempre un motivo per sorridere insieme.